A cominciare dal V secolo in avanti nelle nuove basiliche compaiono i primi mosaici paleocristiani. Anche nei cicli pagani la pittura musiva si stava sostituendo alle altre tecniche tradizionali.
Il mosaico, per sua natura, invita ad una visione da lontano, perché composto da tessere colorate una differente dall’altra. Non permette sfumature e sostanzialmente corrisponde a quella larga pennellata con la tecnica ad olio che si risolve in una visione di tipo compendiario.
Per molto tempo questo tipo di tecnica del mosaico è stata considerata una sorta di caratteristica di decadenza. Nel ‘900 vi è stato un recupero critico di questo stile artistico rendendosi conto che non è incapacità tecnica che spinge ad usare così il colore, ma corrisponde ad una funzione del gusto.
Ma soprattutto un concetto fondamentale è che attraverso questo tipo di arte non si tende ad unire e collegare, ma distanziare, isolare, a evidenziare.
Quella Paleocristiana è definita un’arte anti classica, contraria cioè ai principi classici di simmetria, regolarità, rapporti sistematici ed armoniosi tra il tutto e le parti.
L’arte anti classica inizia con l’arte paleocristiana, ma anche con l’arte romana del III e IV secolo.
Questo essere anti classica ha fatto si che per molti secoli sia stata considerata in maniera dispregiativa, un’arte deteriore, povera, non bella, esteticamente mancante in qualcosa.
Questa idea dell’arte paleocristiana e dell’arte bizantina ha portato a trascurare e sottostimarle dal ‘400, perché in quel secolo rinasce l’arte classica e si considera l’arte paleocristiana un’arte brutta, sgradevole e in effetti osserviamo che alla base di questa visione anti classica dell’arte paleocristiana ci sia la ricerca di un isolamento delle parti e non il collegamento che è un elemento di tipo classico.
Questo lo osserviamo nei mosaico paleocristiani, dove manca l’unità coloristica e ogni striscia di colore vuole essere presa a sé.
Quindi ogni forma vuole essere letta come elemento singolo, non come momento di passaggio in una visione totalizzante.
I mosaici di Santa Costanza
Abbiamo visto in un altro articolo la tipologia architettonica di Santa Costanza, ora vediamo i suoi mosaici.
I mosaici di Santa Costanza a Roma vengono posti in rapporto con le figlie di Costantino il grande. Non esiste alcun dubbio sull’esattezza della datazione, ascritta al secondo venticinquennio del IV secolo, 325-330.
Nella decorazione della volta anulare con scene di vendemmia, l’immagine copre la volta a botte del deambulatorio, che è completamente decorato a mosaico.
I personaggi tradiscono un realismo di vita impressionante, il realismo è un concetto che appare nell’ellenismo ma più nell’arte etrusca, che ha in sé un forte realismo.
Osserviamo che nell’antica decorazione del mosaico oggi è conservata soltanto una parte e di questa solo la decorazione dell’anello della volta a botte, che può essere assegnata con sicurezza al periodo 320-350 d.C.
Questa volta può essere guardata da due punti di vista differenti, di conseguenza le figure dovevano voltarsi a destra e a sinistra dell’asse mediano se vogliono essere presentate all’osservatore in posizione eretta.
Ne risultano tra schemi della composizione in piano.
I vendemmiatori sono osservati da una parte ma ci sono anche dall’altra parte. La figura al centro è guardata da un altro punto di vista.
Non c’è una unità di visione.
Questa non è una incapacità degli autori, ma corrisponde ad una scelta estetica.
La composizione è impostata molto chiaramente: ci sono due scene di vendemmia ai due lati, un elemento estremamente determinato al centro, poi il fondo è intessuto con fitti viticci con significato simbolico di Dio e i fedeli, all’interno dei quali troviamo tre grandezze graduali costituite da foglie, uccelli e putti.
Il fondo in quanto tale quindi è scomparso in qualche modo. Ce ne rendiamo conto anche in altre immagini dello stesso soffitto in cui osserviamo che si crea una sorta di reticolo decorativo impostato alternativamente in cerchi e ottagoni dai lati inflessi all’interno dei quali vi è un elemento singolo, come putti, santi, figure di animali e anche decorazioni astratte.
Questo è uno schema che abbiamo già incontrato nella pittura di Pompei.
Poi sempre nella stessa decorazione osserviamo un altro elemento decorativo, dove abbiamo rami, vasi, penne di pavone, uccelli sparsi in maniera molto fitta e senza regole, ma in generale nelle due posizioni di visione.
Tutti i casi osservati rappresentano una composizione in piani (cioè in punti di vista differenti) ma nello stesso tempo rappresentano anche il tentativo per quanto possibile di sopprimere il fondo e l’isolamento dei singoli motivi sul piano.
Mosaici di Santa Pudenziana a Roma
L’affresco musivo che si trova nell’abside di Santa Pudenziana, opera del IV secolo, mostra una composizione di tipo stilizzato con una figura al cento, che ha una costruzione eminentemente circolare, quindi le figure sono disposte concentricamente. E’ un semicerchio anche dal punto di vista spaziale, quindi indica l’elemento della profondità rifacendosi quindi più chiaramente alla lezione classica, per il concetto di simmetria, di profondità che ancora compaiono, con un cielo percorso da nuvole dove navigano delle figure assolutamente fantastiche.
L’asse centrale formato dal Cristo e dalla croce spartisce in due la composizione, poi una grande esedra architettonica impostata in profondità, con sopra una rappresentazione della città.
Compaiono qui per la prima volta i simboli dei quattro evangelisti: l’aquila per San Giovanni, il bue per San Luca, il leone per San Marco, l’angelo per San Matteo.
Osserviamo che il tema è una sorta di conversazione. Gli apostoli cono alla destra e alla sinistra di Cristo e ci sono due figure femminili in piedi.
Avevamo osservato come ancora in questo affresco musivo la composizione risenta ancora in maniera evidente di quelli che sono gli elementi della cultura classica, come la simmetria e la profondità.
C’è una continua alternanza coloristica fra le superfici chiare delle pareti e gli intervalli scuri delle arcate.